Tutti, o quasi tutti, conosciamo la storia del dottor Jekyll e di mr Hyde: quella di un uomo di scienza che, impossibilitato ad accettare le proprie tendenze sotterranee, così in contrasto con l’immagine pura che mostra di sé in pubblico, decide di scindere da sé stesso questi impulsi dandogli un’altra faccia, un altro corpo.
Una storia tragica, che risveglia un dramma vivo in tutti noi: so che è bene seguire la “luce”, il sentiero virtuoso – ma cosa faccio quando sento che dentro di me si agita qualcosa che devia dalla strada maestra ?
Jekyll non trova nessun mezzo alternativo, vuole tutto. Vuole mantenere la personalità pubblica che lui accetta, perché la società la accetta, una maschera che è garanzia di una vita “significativa”, onorevole – ma soprattutto una vita che può consegnare il suo nome all’immortalità, privilegio degli eroici, dei compassionevoli, degli uomini illustri che vengono idolatrati da contemporanei e posteri.
Allo stesso tempo non vuole rinunciare ad istinti, pulsioni, bassezze, vizi.
Jekyll, come quasi chiunque, si è costruito una storia, un mito di sé stesso: apre le proprie memorie ansioso di farci sapere di essere degno della stima di saggi e persone virtuose, e di essere destinato a “un futuro ricco di stima ed onoreficenze”.
Si sofferma poi sul suo “difetto”: una vivacità impaziente, di cui altri si sarebbero fregiati come di un merito, ma così forte in lui da tramutarsi in una minaccia a quella “esibizione di gravità” di cui il dottore fa sfoggio in pubblico e a cui tanto tiene. Jekyll tenta da sempre di modellarsi in uno stampo che solletica la sua vanità. La forza di questa immagine è così totalizzante da fargli progressivamente percepire la sua indole “vivace” come una macchia inaccettabile. Un morboso senso di vergogna lo pervade.
Questa vivacità ed impazienza di carattere non erano forse inizialmente volte ad azioni delittuose e violente, se Jekyll stesso ammette che altre persone avrebbero potuto fare di quell’irrequietezza una bandiera. E’ proprio la “natura esigente” del suo desiderio di perfezione, e quella linea netta che decide di tracciare per arginare la parte inaccettabile ed elevare sempre più (hybris) quella accettabile, che porta l’irrequietezza a trasformarsi in iniquità.
L’associazione di questa storia con la teoria dell‘Ombra di Jung è immediata e risaputa: tutto ciò che non accettiamo, che non vogliamo vedere o lasciar parlare in noi, diviene la nostra ombra, che si manifesta nei sogni, in ciò che odiamo nell’altro, in quelle frecciatine velenose che ci scappano di bocca senza che ce ne rendiamo conto. Quegli aspetti sono come una bestia tenuta alla catena: l’impossibilità di esprimersi li rende gradualmente sempre più pericolosi e mostruosi e, soprattutto, potenti, quando inizialmente non lo erano. Nati neutri, i nostri aspetti ombra hanno subito gli effetti di un giudizio (nostro o altrui) molto severo che li ha esacerbati.
L’esasperata accentuazione di un aspetto di noi per la necessità di accettazione e per vanità porta l’altro aspetto a soffrire, e dunque ad inasprirsi, diventando peggiore di ciò che in realtà era. Accade così che queste parti improvvisamente abbiano ragione di noi e riescano ad uscire, facendoci compiere azioni che non avremmo altrimenti nemmeno contemplato. Oppure può avvenire che ci consumino da dentro. Il risultato comune è lo sviluppo dell’idea di essere intimamente malvagi. La scelta è quella poi di lasciarsi andare al malvagio che noi stessi abbiamo creato, rendendolo sempre più selvaggio, o celarlo e martoriarci nell’odio per noi stessi.
Abbandonarsi all’Ombra, sguinzagliarla senza conoscerla, non è la soluzione. Una volta compiuta la sua scissione, infatti, Jekyll rimpiange il volto che tutti i giorni vedeva allo specchio. La persona unita che lui poteva essere e che ha smembrato, condannandola.
Jekyll è pavido perché illuso: non trova la forza di arrendersi alla sua evidente imperfezione, che, in quanto essere umano, non può essere corretta. Il rifiuto di questa consapevolezza lo priva delle armi per integrare lato virtuoso e lato ombra, e lo spinge a voler separare le due parti, che dovrebbero invece collaborare. Il risultato è l’esasperazione di entrambe, e dunque una convivenza impossibile, che può sfociare nella morte di una delle due parti, o anche di entrambe.
Eppure anche nel suo essere Jekyll il dottore non può nascondere qualcosa di Hyde: Jekyll è magro, alto, slanciato, elegante, un essere che tende all’elevazione, al regno della mente e dello spirito, della speculazione, della ricerca di ciò che non si può conoscere con la ragione, eppure il suo passo è pesante. Ce lo rivelano Utterson e Poole, mentre stanno per stanare Hyde dal laboratorio: il passo della creatura chiusa all’interno è “leggero, elastico”, molto diverso dal passo “pesante e rumoroso” di Jekyll che loro conoscono così bene. Dunque Jekyll è un essere umano dall’anelito intellettuale ma con un passo ben piantato nella materia, nella terra, nelle viscere, nel presente; Hyde una creatura ributtante e deforme, tozza, tutta presa nel soddisfacimento materiale del qui ed ora, ma si muove leggero, ed addirittura elastico, come se si proiettasse in alto.
Quei due passi sono le ultime vestigia, trattenute nel corpo opposto, di due lati di una personalità scissa e quindi ormai perduta: il ricordo del desiderio recondito di Jekyll di accettare il suo lato terreno ed imperfetto, la tragica necessità non esaudita di Hyde di potersi librare.

10 Settembre 2020 In Bodilit: storie con un corpo